“Una regista teatrale d’avanguardia.Un direttore di carcere.Un cappellano che vuole mettere in scena una Passione.Venti detenuti che aspettano solo che il tempo passi...Quando Irena Mirkovic (Kasia Smutniak) accetta di collaborare con don Iridio (Gianluca Gobbi) per la messa in scena in un istituto penitenziario di una paradossale “Passione Pasquale” non sa che quell’esperienza le cambierà la vita. Non solo perché l’incontro con il direttore del carcere Libero Tarsitano (Fabio Troiano) la spingerà a chiudere definitivamente la relazione con il suo fidanzato-attore Cristiano (Cristiano Godano), ma perché presto si troverà di fronte a un problema insolubile. Dopo aver conquistato la fiducia dei detenuti, Irena si rende conto che “dentro” nessuno è intenzionato a fare la parte di Giuda, per motivi che in un carcere sono chiari a tutti. Nonostante le sue insistenze, i “ragazzi” restano fermi nel loro rifiuto e inoltre c’è anche chi rema contro lo spettacolo: suor Bonaria (Luciana Littizzetto), una religiosa inflessibile ma dotata anche di spirito molto pratico. La situazione si sblocca quando Irena ha un’illuminazione: se Giuda non si trova, perché non pensare alla storia di Gesù in un altro modo ? Una storia che non preveda tradimento, condanna, punizione e morte ? Una storia che finisca bene ? I detenuti, pur non afferrando le implicazioni filosofiche, apprezzano la scelta: purché sia contro la galera...”
questa trama è stata tratta da http://www.mymovies.it/cinemanews/2009/5143/
l'ho inserita perchè è un film molto bello, magari un po utopistico ma può dare l'idea di come può essere la vita all'interno del carcere e come un progetto come questo possa servire a capire meglio la vita all'interno delle case di detenzione...buona visione.
La condanna del silenzio
RispondiEliminaDomani, domani, domani,
secoli riflessi
nel vuoto intimo.
Così difficile amare
con le mani legate,
con il cuore squarciato,
con le labbra tumefatte
dai rimorsi.
Ancor più avvilente
la rinuncia offende
nel momento della resa.
Muri di pietra altissimi,
divengono i miei pensieri.
Condanna alla condanna
la scelta di vivere ancora.
CONDANNATI A RIEDUCARE di vincenzo andraous
RispondiEliminaIn questi ultimi tempi nei riguardi del carcere si ascoltano frequenti analisi, per tentare di rendere questo pianeta sconosciuto non solo più vivibile per chi vi è ristretto, senza dimenticare chi vi lavora, ma anche più consono alle aspettative dettate da una Costituzione che non è carta straccia, ma la carta magna dei diritti e dei doveri di ogni cittadino, sia esso libero che detenuto.
Ci sono da una parte le opzioni espresse da chi vorrebbe decarcerizzare, depenalizzare, legalizzare. Mentre dall’altra sponda si chiede di incrementare l’edilizia penitenziaria e abbassare il livello di fatiscenza delle strutture.
Poche invece le prese di posizione per elevare lo spazio di vivibilità all’interno degli istituti, per la rielaborazione di pene più umane per rendere meno incresciosa la recidiva, e più effettiva la richiesta di certezza della pena.
Le ultime novità stanno nella creazione di carceri gestite da eventuali titolari di comunità, prigioni parastatali con regole e norme ad hoc. E poi ancora alcune richieste di adottare un detenuto, lavoro socialmente utile, ecc.ecc.ecc.
Riguardo alla comunità di Stato per detenuti, indipendentemente dalle insegne o dalle etichette che si apporteranno, si tratterà di un carcere per tossicodipendenti, in territorio Italiano, con una legislazione vigente in tutte le prigioni della penisola.
Ciò che colpisce è l’imbocco di un’avventura per niente conosciuta, se non per ciò che dal privato penitenziario ci soggiunge dal paese del sogno…americano. Un mondo carcerario che è davvero un inferno, dove nulla e nessuno è risparmiato.
Sovviene una doppia riflessione, è sempre positivo elaborare un nuovo progetto per tentare di migliorare le condizioni del carcere italiano, soprattutto delle persone detenute, e per quella umanità ferita dalla droga. E’ chiaro che in questo senso il discorso appare più che accettabile.
Lo è un po’ meno quando la riflessione scava al di sotto del primo strato dell’iniziativa, la quale non ha solo abiti mentali sociali, ma anche politici.
Allora diventa pressante la domanda: perché non investire quel denaro per spazi, sì, all’interno di una prigione, ma finalmente idonei al ripristino della propria dignità, autostima e crescita personale.
Spazi adibiti allo studio, al lavoro, a quella risocializzazione che è sintesi di una rieducazione che non ha più da regalare misere parole né sconti pietistici, affinché chi esce da una galera non abbia a ritornarvi…per una specie di nemesi precostituita.
Investimenti in risorse umane qualificate e qualificanti, per capacità e per forze in campo…finalmente sufficienti, a mantenere alto il senso di salvaguardia della collettività attraverso l’accompagnamento individuale in microgruppi facenti parte il macrogrupppo.
Tutto ciò porta a sottolineare ulteriormente quella domanda iniziale; perché non investire davvero in quanto già c’è, in quanto già è scritto nelle circolari ministeriali, negli intendimenti del Dipartimento e del Ministero, quindi in quelle sezioni o strutture cosiddette “a sorveglianza attenuata”dove gli strumenti e le risorse impegnate non possiedono astrattezze, ma rimangono tutt’ora relegate in un angolo, perché poco condivise e perché osteggiate da pseudo furbizie politiche.
Forse sono figlio della mia storia, dei miei trentacinque passati dietro le sbarre, ma conosco il dazio da pagare per il male fatto agli altri, una pena che affligge, punisce e separa dalla collettività. Una pena che sancisce la fine di un tempo che non passa mai, un tempo che non esiste. Che non ti assolve.
Come detto molte sono le idee per trasformare in meglio il carcere, mi pare però che le stesse comunità, se non ancora del tutto preparate a questo nuova sfida, che appare ravvicinata se non vogliamo davvero che il carcere divenga lo strumento di ogni conflitto sociale, da tempo sono già luoghi di esecuzione della pena, infatti dove io svolgo la mia attività di tutor nella comunità “Casa del Giovane” di don Franco Tassone a Pavia, ciò avviene con persone agli arresti domiciliari, in affidamento, in misura alternativa al carcere ecc.
Forse sarebbe il caso di investire veramente di più in quelle comunità che hanno costruito negli anni sul campo la loro credibilità, professionalità, progettualità e capacità di accompagnare l’altro in difficoltà. Quelle comunità-strutture che sono palestre di vita, le quali invitano a espellere le tossine a chi non regge più il passo, e parallelamente consentono una corretta applicazione della sanzione nella ricostruzione di identità perdute o peggio mai individuate.
Investire in quelle aree pedagogiche peraltro esistenti nel carcere, perché la politica dell’esclusione non possiede strumenti di ricomposizione per il reato commesso, né di cambiamento e riconciliazione, allora lo sforzo sta nella ricerca di una dimensione che non possa coincidere solamente con la fisicità della segregazione, o con un modello culturale basato sull'emarginazione e su una condanna che diviene alterazione del tempo e dello spazio, persino dei sentimenti.
Qui non si tratta di eccedere nel garantismo in favore dei detenuti, a discapito della tranquillità dei cittadini liberi, vittimismi e pietismi fanno male a entrambi.
E’ sorprendente come a volte l’incontro con gli altri, ci conduce sul sottile confine che delimita la scelta di rinnovarsi, di cambiare, ricorrendo alle proprie forze, alle proprie energie per tentare di recuperare non solo nel trascendente della fede, che ogni individuo professa, ma fors’anche e soprattutto su ciò che in ciascuno incombe: la responsabilità di "ritrovare e ricostruire se stesso".
C’è necessità di un ripensamento culturale che affermi la giustezza di un principio, il quale non è filtrato da scuole di pensiero o strumentalizzazioni ideologiche, in carcere esiste un prima e un durante e un dopo, più il carcere recupererà persone, più il problema della sicurezza sarà soddisfatto, contrariamente a ciò che si è cercato di fare passare come principio sofistico.
Un carcere che umilia, che destruttura senza preoccuparsi di ristrutturare, porterà ad una delinquenza ancora più agguerrita, ad una insicurezza maggiore di quella vissuta nei nostri tempi.
Occorre davvero fare camminare insieme con equilibrio e senza dimenticanze la funzione di salvaguardia della collettività e quella di recupero fattivo delle persone detenute.
In questo ultimo periodo non si fa che parlare di eliminare le vecchie fortezze penitenziarie perché fatiscenti e inumane. Non so perché ma ciò mi fa pensare a quella Edilizia Penitenziaria nata in epoca emergenziale: privilegiando criteri tecnologici di neutralizzazione e incapacitazione,
Per cui se questa è l’ottica mi chiedo dove potrà estrinsecarsi l’aspetto di carattere trattamentale-rieducativo, risocializzante, di recupero del detenuto.
Contraddizioni questa, che coinvolge non solo il recluso, in quanto anello più debole (e quindi doppiamente prigioniero del meccanismo perverso che genera il carcere così com’è), ma anche l'Operatore Penitenziario, perchè volente o nolente, egli verrà a trovarsi in una posizione conflittuale rispetto alla consegna che la Costituzione e l’Ordinamento Penitenziario gli conferiscono.
Mandato il suo che striderebbe fortemente in una situazione di sbilanciamento sul versante della sola sicurezza. Infatti l’Operatore Penitenziario ha nelle sue funzioni peculiari il fornire supporto per quell’auspicata risocializzazione dei detenuti, i quali sono soggetti a osservazione e trattamento, ma che a causa del sovraffollamento, dell'esiguo numero di operatori poco possono essere seguiti. Per cui questo importante mediatore relazionale si troverà anch'esso prigioniero dell'impossibilità di ben operare, di inventare tempi e modalità di esecuzione.
Costruire nuove carceri? Si dice che lo si farà ragionando con il criterio di un paese moderno, ossia all’insegna della sicurezza e del recupero, eppure il personale addetto al trattamento rieducativo continua a mancare, gli istituti obsoleti nati nelle città vengono lentamente smantellati, e quelli nuovi piazzati nelle periferie sempre più remote… a dire dei tecnici per una impossibilità logistica.
Ma così il luogo per eccellenza più separato, escluso, ghettizzato, diventa lo spazio più facile da rimuovere culturalmente.
Se il carcere che si vuole fare nascere non avrà spazi di risocializzazione, perché costruito su un ragionamento di solo contenimento del fenomeno criminale, se gli spazi in questione verranno immediatamente occupati per la troppa abbondanza di carne umana, mi sembra chiaro che continuerà a venire meno la funzione stessa della pena e cosa ben peggiore aumenterà la recidiva e la società si ritroverà in seno uomini ancora più incalliti di quando sono entrati, peggio uomini ritornati bambini incapaci di fare scelte responsabili.
In questo senso assume grande rilievo l'impegno di ognuno, ciò alimentando processi ripetuti di relazioni e interazioni, affinché sia possibile un cammino di crescita individuale attraverso la sinergia di quattro poli convergenti: Magistratura, Istituzione Penitenziaria, Società e Detenuti.
Se solo una di queste componenti viene meno tutto il progetto è destinato a fallire.
Lo stesso dibattito sulla Giustizia e in questo caso sulla pena e sul carcere è costantemente avvelenato dal flusso comunicazionale non sempre corretto e leale. Per cui il bene e il giusto che si riesce a fare in una galera, nelle persone ricondotte al vivere civile, premessa per ogni conquista di coscienza, rimangono ultimi e dimenticati, rispetto al male commesso dai pochi.
Di conseguenza rivendicare la propria dignità, ognuno per sua parte e nel proprio ruolo, sfugge a ogni regolamentazione giuridica e umana, ciò per una politica contrapposta e distante che disgrega e annienta quei “ponti di reciproco rispetto “ a fatica mantenuti insieme.
Ci sono molte idee in pentola, personalmente mi limito a ribadire che affrontare il cambiamento è una necessità, come affrontarlo è una sfida per l’Amministrazione Penitenziaria, per i detenuti, per l’intera società. Se il carcere permarrà o scivolerà in un sistema chiuso, esso gestirà i problemi del cambiamento e dell’aggiornamento tentando di mantenere lo status quo ripiegandosi su stesso; se invece diverrà un sistema di detenzione aperto agli ideali nuovi e possibili, allora diverrà anche un luogo di reale testimonianza.
Altrettanto bene so che è innanzitutto al detenuto, che viene chiesto doverosamente di essere all'altezza del servizio offerto ( e sarebbe bene intenderlo come una conquista di coscienza e non solo come una mera possibilità statuale ), ma questa prigione costantemente costretta a vivere del suo, a rigenerarsi di una speranza pressochè spenta, rafforza la separazione tra il carcere e la società.
EPPURE IL CARCERE E’ SOCIETA’.
Allora come può una società non sentirsi chiamata in causa, non avere la consapevolezza che è suo preciso interesse occuparsi di ciò che avviene o non avviene dentro un carcere? Perché volenti o non volenti, esiste un dopo e questo dopo positivo dipende da un durante solidale costruttivo e non indifferente.
Qualunque sia il fondamento che si vuole assegnare alla morale della pena, qualunque sia il peccato di ognuno, un punto è condivisibile e irrinunciabile: non ci sono contributi “unici” da dare, né costruzioni di prigioni utopistiche, non c’è neppure da inventare una nuova tavola di valori. C’è solamente bisogno di riempire di contenuti adeguati quel che viene chiamato il bene e il giusto, perché inutile negarlo il carcere è primariamente un male profondo, e se non sarà inteso come ripristino di un senso di giustizia e di possibilità a riacquistare la propria dignità, esso sfibrerà gli uomini ristretti rendendoli insensibili alla necessità di ricucire quello strappo dolente causato con il proprio comportamento.
Vincenzo Andraous
Carcere di Pavia
e tutor della “Casa del Giovane“ di don Franco Tassone a Pavia