venerdì 3 aprile 2009

eccomi qua!


salve a tutti!
eccomi da oggi in blogger!
in questo blog voglio parlare della rieducazione, e in particolare della rieducazione dei detenuti.
spero che visiterete questo piccolo spazio di internet in molti,e commenterete i miei post.
buona lettura!

5 commenti:

  1. ciao sereeeee..
    certo che guarderò il tuo blog :)
    buona giornata!!!!

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  2. Ciao....:-)
    Molto interessante il tuo blog!!!!
    Hai scelto un argomento importante e utile...
    Brava!!!
    a presto...

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  3. Ciao seremia...gia e' molto bello!!!brava brava...!!!ciaoooooooooooo...Valerio

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  4. Ciao sere!molto bello l'argomento,guarderò il tuo blog..bye bye =)

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  5. VINCENZO ANDRAOUS
    vincenzo.andraous@cdg.it

    LA CROCE DELLA RICONCILIAZIONE

    Il carcere non è quello disegnato nei films, nei romanzi, nei fumetti, non è quello strumentalizzato dal sistema mediatico.
    Il carcere con i suoi molteplici contorcimenti, forse è addirittura irrappresentabile se non lo si tocca con mano, eppure occorre significare un tragitto diverso, un cammino, sì, difficile, ma più vicino al reale.
    In questa prigione oscura, tetra e dura, tanto da divenire un incubo, fino a farti ammuffire più del suo tetto-cratere corroso dal tempo, esiste un'umanità che sopravvive e infine chiede di vivere.
    Allora si dovrebbe prendere in esame questa istanza, che non ha nulla di pietistico o vittimistico, affinché divenga un preciso interesse collettivo, perché nessuno si ritenga autorizzato a non farci i conti.
    Questa cella, questo recinto stretto, questo carcere a distanza siderale dall'essere, difficilmente si impara ad accettarlo come intorno, a colorarlo con il lavoro, la meditazione, i rapporti umani finalmente nati, mantenuti e custoditi.
    Credo sia il tempo di assumerci in prima persona le nostre responsabilità, convincerci sempre di più che una persona detenuta deve fare ricorso alle proprie energie interiori per riuscire a vincersi e migliorarsi, ma ciò “ nonostante il carcere“, diventando soggetto sociale attivo e non solamente "larva”, tanto meno rassegnandoci ad avere a che fare con un mero contenitore di “oggetti”.
    In questo tempo d’impegno nella comunità “Casa del Giovane”, ho capito che è proprio dall'esperienza che nasce la necessità di cercare ripetutamente dei chiarimenti.
    La spinta a mettersi in discussione, a rimettersi in gioco, per conoscere di più noi stessi e gli altri, viene soprattutto dagli incontri e dal confronto che ne deriva.
    Il carcere traccia i nuovi confini del disagio sociale, è cambiata la tipologia criminale, così la stessa umanità ristretta.
    Ecco i tre grandi problemi endemici all’Organizzazione Penitenziaria: il sovraffollamento, la carenza di personale e di fondi.
    Un’istantanea che non consente giustificazioni, neppure pause pseudo-liberatorie, è un’apnea in cui la società non può chiamarsi fuori, tanto meno considerare questo perimetro un agglomerato o un corpo morto a lei estraneo, perché essa stessa con i suoi squilibri, le sue ingiustizie e i disvalori, ne partorisce le trasgressioni e le conseguenti devianze, che comportano quel sovraffollamento che tutti ben conosciamo.
    Allora come può una società non sentirsi chiamata in causa, non avere la consapevolezza che è suo preciso interesse occuparsi di ciò, perché volenti o non volenti, esiste un dopo, e questo “dopo” positivo dipende da un durante solidale, costruttivo e non indifferente.
    Qualcuno insiste a disperare sul futuro incerto e obliquo?
    Il carcere viva allora nel presente, e lo faccia attimo dopo attimo, costruendo un mondo carcerario più vivibile, a misura d’uomo, nella consapevolezza che ciò è compito di tutti.
    Nessuno escluso.

    UNA PENA RISPETTOSA DELLA DIGNITA’ DELLA PERSONA

    C’era una volta il carcere inteso come casa di vetro, un luogo ove era possibile “ guardare e vederci chiaro “, uno spazio in cui la società civile, poteva osservare ciò che in un penitenziario accadeva, ma soprattutto ciò che non accadeva.
    In un paese come il nostro, dove ogni giorno il passo indietro è più veloce ed esteso di quello fatto in avanti, per arginare un fenomeno diffuso come l’illegalità, non basterà certamente la configurazione di un carcere costretto a vivere di se stesso.
    Sembra un secolo quando dal carcere potevano uscire suoni di cultura del bello, di ricostruzione morale, di collaborazione tra dentro e fuori, nuovi orientamenti esistenziali, cambiamenti interiori e non lamentazioni.
    Oggi crea imbarazzo persino discutere sulla possibilità di umanizzare la pena, per l’italiano medio è più sbrigativo e meno impegnativo risolvere la questione con il metodo della chiave buttata via, della battuta fuorviante che non c’è certezza della condanna figuriamoci della pena, insomma macerie dialettiche su cui spostare qua e là l’attenzione.
    Forse non è sufficiente richiedere a gran voce inasprimenti delle pene, costruzione di nuovi complessi penitenziari, non convince più la formuletta: “nel paese delle bugie, la verità è una malattia”.
    Perseguire con onestà e coerenza un vero interesse collettivo significa pensare al benessere delle persone, quelle innocenti, quelle spesso indifese e più deboli, quelle che sono state spinte, a volte disperatamente a esprimere una doverosa esigenza di giustizia.
    Interesse collettivo è anche dare dignità alla pena, perché non si trasformi in una condizione contraria al senso di umanità, deprivata della possibilità di riabilitazione, di una speranza che non rimanga mera illusione.
    Interesse collettivo non è qualcosa di opinabile, è un preciso salvacondotto alla solidarietà costruttiva, quella che non spende tutto di sé, limitandosi a spedire in galera chi sbaglia, ma anche si impegna affinché chi entra in prigione non abbia a uscire destrutturato al punto da non risultare più annoverabile tra le persone o gli esseri umani.
    Un preciso interesse della collettività non sta solamente nell’utilità indiscutibile dell’azione penale, ma altrettanto bene sta nel visionare la detenzione che ne conseguirà, non è possibile essere intransigenti con il reato e disattenti sulla compromissione nelle condizioni di invivibilità all’interno di un istituto carcerario.
    Non è materia secondaria investire energie e danari per giungere a una pena rispettosa della dignità delle persone, propensa a una architettura del fare che persegua parametri essenziali per considerare plausibile un nuovo orientamento sociale.
    Quale carcere e quale interesse collettivo privilegiare: le risposte che sapremo fornire, risulteranno la conferma di una malattia inguaribile, oppure l’intuizione necessaria per tentare la cura più appropriata.
    L’ampiezza del reato, l’intensità della condanna, non consentono oltre di trincerarsi dietro l’enigma insoluto di un carcere vessato e umiliato a una sorta di terra di nessuno, ma proprio attraverso questa autoipnosi collettiva, ripartire, investendo sulle risorse degli uomini, riformulando un percorso condiviso di nuove opportunità, riconciliazione e riscatto.

    DALLA CONFERENZA NAZIONALE SULLE DROGHE A TRIESTE ALLA RIEMERGENZA

    Una vita spericolata, un eufemismo, una semplicizzazione, che non aiuta a venire a capo del problema, una esistenza bruciata, calpestata, eppure quanti giovani in quel “voglio una vita spericolata “ hanno trovato un inizio senza più fine, senza più arrivo, l’illusione di una meta raggiunta quando invece si trattava di un punto di partenza.
    Con l’imprudenza di una canna, il respiro attraente di una sniffata, una alzata di spalle alla pazienza, un palcoscenico virtuale, scompaiono i valori importanti, la fiducia in se stessi e negli altri.
    Ogni volta che violenza e disattenzione miscelano un futuro senza paletti a difesa, ogni volta che accade qualcosa di brutto a un ragazzo, e il mondo adulto rimane indietro rispetto al pianeta degli adolescenti, e fenomeni come bullismo, droga, devianza, scardinano le certezze in bella fila, su piedistalli di cartone, è un comando a dare veramente una mano, ad incontrare il male con il bene della coerenza, quella che non dà il fianco alle interpretazioni, alle giustificazioni, alle facili conclusioni.
    Alla Comunità Casa del Giovane vengono a trovarci studenti, associazioni, esperti e uomini politici, è nostra consuetudine svolgere un tour negli spazi adibiti a laboratori, nei corridoi delle strutture di nuova generazione, accompagnando gli occhi e il cuore verso dimensioni umane che occorre ritrovare, non solo nei riguardi degli utenti ospitati, ma di coloro che intendono crescere insieme attraverso una presenza utile e dignitosa.
    Quando la realtà soccombe all’immaginazione e l’incredulità non consente sollievo, l’impatto con la scoperta di avere un figlio preso in mezzo dalla violenza esercitata da un bullo, dal gruppo dei pari che ricerca emozioni forti, rompendo e distruggendo, senza disporre di alcuna uscita di emergenza, è proprio nelle stanze della Casa del Giovane che sovvengono alcune risposte mancanti, interrogandoci sull’ascolto di storie clandestine che sottovoce raccontano di un giorno vissuto svogliatamente, nel rinculo rabbioso che offre lo sballo, l’annullamento di ogni più intimo colloquio, di ogni sofferenza e di ogni salita da affrontare.
    Forse non sono più sufficienti i tanti cinque in condotta di cui sentiamo parlare, le sospensioni e le sanzioni comminate, per rendere plausibile il valore della civicità, dell’educazione, adesso è giunto il momento di alzare il viso e lo sguardo in alto, nei riguardi di un mondo giovanile sempre più inondato di notizie e sempre meno consapevolizzato, sempre più spintonato verso un mercato delle deleghe, dei diritti acquisiti senza sudore.
    Di fronte a un giovanissimo che sceglie di curare il proprio delirio di onnipotenza con la droga, il gruppo schierato a difesa del fortino che non c’è, con il freddo di una lama tra le dita, per tenere lontano il mondo percepito come avversario da odiare e colpire, sarà bene non rimandare un intervento educativo che ricomponga un equilibrio, riporti ordine nella relazione da mantenere e custodire.
    E’ auspicabile invitare le nuove generazioni a mettere il naso e i piedi nei corridoi di una comunità per rendersi conto che la realtà è che la persona incontra la droga, perché spinta da qualcuno a consumarla, e che non esiste droga come esperienza positiva in una botta di nulla che esclude ottusamente.
    Nei silenzi di questa comunità c’è intenso l’incontro con la riemergenza dalle situazioni più difficili e superficialmente concluse senza speranza.

    CERTEZZA DELLA PENA E INTERESSE COLLETTIVO

    In Italia, di pena e di carcere si parla poco e male, come se il “recinto chiuso” fosse una periferia da rimuovere, da annotare su una pagina stropicciata e illeggibile.
    I reati diminuiscono, ma la percezione di insicurezza aumenta, in rete la quota di allarmismo quotidiano straripa pericolosamente, formulando la pretesa di risolvere ogni questione con la galera, con la pedagogia dell’asprezza.
    Come se a una doverosa esigenza di giustizia da parte della vittima, non dovesse corrispondere l’onestà intellettuale di una pena erogata con umanità, quanto meno per tentare di ricomporre la relazione tra le persone secondo reciprocità e responsabilità.
    La certezza della pena deve comunque riconoscere l’importanza di un percorso di cambiamento, che non è realistico se non garantito da passaggi formativi e relazionali che spingono non solamente a apprendere quanto il proprio passato sia stato errato, ma anche a sentire il bisogno concreto e autentico di essere finalmente in relazione con gli altri.
    Quanto c’è ancora di intuitivo e positivo del fare reciproco tra il dentro e il fuori, tra gli operatori penitenziari e i detenuti, per avere fiducia e forza sufficienti a mantenere alto nella sua dignità quel patto di lealtà stipulato con la collettività.
    Quanto è ancora realmente condiviso il concetto che esiste un prima e un dopo, che passa necessariamente attraverso un “durante” carcerario solidale perché costruttivo, non certamente vendicativo al solo scopo di placare momentaneamente la richiesta di sollievo di una società confusa e perplessa, ma basato su una progettualità educativa.
    E’ un cane che si morde la coda, come per il disagio giovanile, per la droga, per i morti e le tragedie sul lavoro, sulle strade, si invocano norme intransigenti ma confidando sui soliti investimenti residuali, peggio, si configura un disincanto educativo a vantaggio di un non meglio specificato obiettivo condiviso, quello della cementificazione delle coscienze, come se limitarsi a rinchiudere dentro una cella l’errore e l’inganno, potesse vincere la sofferenza per l’ennesimo accadimento tragico, come se nella riproposizione di una sordità trattamentale, vi fosse insita la chiave di accesso per riconsegnare all’opinione pubblica equilibrio e dignità.
    Dimenticando che in carcere, se il detenuto è collocato nella stessa condizione di quando vi è entrato, non solamente permarrà nell’indifferenza verso chi ha offeso, ma anche nell’impossibilità di comprendere il valore come persona e dignità umiliata.
    Sul carcere c’è tanto da fare più che da dire, soprattutto c’è tanto da sapere e conoscere per poter intervenire con la giusta volontà politica, ma la politica appare incapace di concorrere alla formazione dell’opinione pubblica, è più concentrata a moltiplicare i luoghi comuni, gli stereotipi possibili e impossibili, e ciò comporta una sequela infinita di rinculi, una confusione sugli interessi collettivi che ne tutelano diritti e garanzie.

    NON PER MAFIA NE’ CAMORRA

    Quando ci si addentra nel mondo giovanile c’è il rischio di imbattersi improvvisamente in un altro mondo vicino, c’è una difficoltà estrema a distinguere i tratti di una violenza priva di significati, soprattutto di utilità.
    Nel Regno Unito le babygang spadroneggiano nelle città come nelle periferie, gli adolescenti sono fotocopie di “eroi” delle playstation, i ragazzini non sono più imberbi fautori del “tutto e subito”, ma veterani di una guerra che non è mai stata loro, un morto dietro l’altro.
    Accade in quell’Inghilterra che da anni ammiriamo, che vorremmo imitare per capacità creative e economiche.
    Da noi per ora, bullismo non è criminalità, non è ancora calamità nazionale, soprattutto non è ancora serbatoio di alcuna organizzazione criminale.
    Il nostro è un bullismo del benessere, è abuso dell’agio, persino chi non ha niente, possiede qualcosa al fondo delle tasche, non è disagio che picchia contro al mancato raggiungimento di un traguardo economico, è disagio relazionale, paura delle vita, non della morte, è incapacità e rigetto della scelta.
    Ciò che accade dall’altra parte della Manica è differente, perché nasce da una povertà endemica in alcuni strati sociali, da degenerazioni famigliari estese a interi quartieri, da un alcolismo adulto che insegna ai più giovani a non fare prigionieri.
    Sono morti ammazzati diciotto ragazzi in un solo anno, una bestemmia indicibile, forse questa volta non si eluderà la condivisione della tragedia, del dolore, con la solita richiesta-risposta di inasprire le condanne, di invocare le solite certezze delle pene.
    Stiamo parlando di un paese dove migliaia di minori sono diventati “esseri esiliati dalla vita” in qualche carcere, molti muoiono in quelle celle, e non occorrono tante spiegazioni.
    Le carceri inglesi scoppiano di giovani all’arrembaggio, eppure le punizioni sono esemplari, l’uso del braccialetto e del controllo sono espressi alla massima potenza, ma in un anno diciotto ragazzi sono stati assassinati, e altri trenta sono deceduti negli istituti penitenziari.
    Un paese che non ama, non protegge e non rispetta i suoi giovani, ma li emargina e li criminalizza, appare una dicitura post-mortem, invece è quanto ogni cittadino, non inglese ma del mondo, deve riflettere e ponderare.
    Ci preoccupano i nostri bulli, invochiamo la frusta, ma se guardiamo al paese dei Re e delle Regine, delle tendenze e dei suoni, c’è la risposta da dare alle nostre generazioni, c’è l’avviso a non incappare nelle superficialità che potremmo pagare a caro prezzo, c’è la necessarietà a attuare piani economici e politiche sociali che vedano coinvolti non solamente i ragazzi, ma anche gli altri, in quel famoso sostegno alla genitorialità troppe volte dimenticato a metà del guado.
    Diciotto morti ammazzati in un anno, non per mafia, nè camorra, unicamente ragazzini dai pantaloni a vita bassa, con le tasche grandi, con le mani conficcate dentro, in compagnia del freddo di una lama tra le dita.


    A QUALE SCOPO UNA PENA DISTRUTTIVA E IMMUTABILE?

    Come è possibile proporre di abrogare la legge Gozzini, una normativa che negli anni ha consentito di migliorare le persone in carcere, di fare davvero promozione umana, una prevenzione non fondata sulla vendetta, su quei sentimenti che non consentono giustizie sociali né pace per alcuno?
    Perché è vero: la violenza regna dove l’ingiustizia ingrassa.
    Conosco il sentire comune del “chi sbaglia paga” e la difficoltà a coniugare una giusta e doverosa esigenza di giustizia da parte della vittima di un reato, con una possibilità concreta di riscatto e riparazione in chi ha offeso l’altro.
    Pagare il proprio debito alla società non può significare la creazione di una nuova dimensione di violenza, in una pena distruttiva e immutabile, che non consente di fare i conti con il peso delle proprie colpe, con le lacerazioni che hanno prodotto la rottura del vivere civile.
    Quanto è difficile chiedere perdono in queste condizioni?
    E quanto essere perdonati?
    Ciascuno vive il suo presente in funzione delle scelte fatte nel passato, non per un sottile gioco delle maschere, ma perché le azioni del cuore, se non condivise, non consentono di essere scelte.
    Allora ricostruirsi sottende capacità e forza per riparare al male fatto, richiama l’altro-gli altri ad accorciare le distanze, affinché l’uomo chieda perdono non con le parole, nè con la pietistica abbinata alle più alte autorappresentazioni, bensì nei gesti ripetuti, nei comportamenti quotidiani.
    Rimangono le responsabilità e gli abissi dell’anima, nulla è cancellato, niente è dimenticato, ma sentire dentro il bisogno di perdonarsi, di avere pietà di se stessi, indica la via maestra per l’altro bisogno: essere perdonati per ciò che si è nel presente, nella consapevolezza degli errori disegnati a ogni passo in avanti, condividendo quel bene comune che è intorno a noi.
    Perdonarsi e chiedere perdono è voce che parla al cuore con note forti, per tentare di tramutare l’ansia e il dolore delle vittime in una riconciliazione che sia cambiamento fruibile per la collettività tutta.
    Penso che una vendetta che ripara teatralmente non produca nulla di positivo, e neppure un carcere che mantenga inalterata la follia lucida di chi ha commesso un reato.
    Accontentarsi di chiedere maggiore severità nelle pene da espiare, induce la persona detenuta a convincersi di aver pareggiato il conto, di aver pagato quanto dovuto.
    Invece, riconoscere il bisogno di perdonarsi e perdonare, sottolinea l’urgenza di un percorso umano ( non solo cristiano ) nella condivisione e reciprocità, nell’accettazione di una possibile trasformazione e di un fattivo cambiamento di mentalità.
    Cancellare la Riforma Penitenziaria o legge Gozzini?
    A ognuno di noi spetta il compito di diventare un entronauta, un viaggiatore contempl-attivo, persino in carcere, in una pena finalmente accettata e vivibile.



    UNA SOCIALITA’ VISSUTA SOPRAVVIVENDO

    Una classe di un liceo lombardo, adolescenti molto colorati, qualcuno incuriosito, in attesa di saperne di più di quest’incontro.
    Il luogo del confronto la Comunità Casa del Giovane, i temi da trattare bullismo, droga e carcere, argomenti di una socialità vissuta sopravvivendo, nella sfrontatezza degli anni corti, quelli che non posseggono ancora residenza.
    “Avete sentito di quei ragazzi che hanno menato un compagno fino a mandarlo in ospedale?
    Sì, a volte succede, bisogna vedere cosa ha fatto il ragazzo, sarà sicuramente il solito sfigato”.
    Il solito sfigato è chiaramente quello più debole, più fragile, out rispetto al gruppo in agguato, è quello lasciato indietro.
    Qualche canna me la faccio, ma non sono un tossico, il fumo non è droga pesante, somiglia a un paio di birre bevute in fretta, è roba normale”.
    Normale come guidare un auto “prelevata” e andare a sbattere a 140 all’ora contro un platano, tra una risata sguaiata e l’altra, mentre l’amico seduto al tuo fianco, meno fortunato di te, c’è rimasto secco.
    A 14 anni è facile indossare l’abito del duro, per essere ammirati all’interno di quel recinto che viene prima di ogni altra cosa, della famiglia, il cui rapporto è rarefatto, con gli insegnanti è fittizio, mentre con gli “amici” è vitalizzato da “segni e scatti” che caratterizzano il plotone, al punto da relegare in un angolo il morso della colpa, della vergogna, un fastidio delle regole percepite per ripudiarle alla bisogna.
    “Io non ho paura di niente, non mi fido di nessuno, il mondo è popolato di gente che è lì per fregarti”.
    Proprio questo modo di pensare e di agire nell’illusione di risolvere da soli i problemi, conduce allo sbaraglio, a imbattersi improvvisamente con la realtà aspra dei dazi da pagare, perché questo è certo, prima o poi si pagano e molto pesantemente.
    Il carcere non è quello della televisione, non sbarra il passo ai soliti che non siamo noi, spesso al più furbo toccherà conoscere la solitudine di una cella, le miserie che vi sono ristrette e contenute, se continuerà a guarderà allo sfigato di turno come a una cosa, a un animale, a cui è possibile rapinare la dignità e il rispetto, intesi come prodotti reperibili al supermercato dei sentimenti.
    Non ci troviamo casualmente in questa comunità, dove centinaia di ragazzi affrontano quotidianamente la salita, per affrancarsi dall’abbandono a se stessi, dalla rabbia di un momento o di anni umiliati e sconfitti.
    “Tu a 14 anni hai capito tutto quanto, io che ti sto parlando ho impiegato una intera vita spesa male per rendermi conto che il futuro non è un palcoscenico da cui puoi salire e scendere a piacimento, o un’ abitudine a privilegiare la via più corta e facile, ma lastricata di sfigati, come dici tu, lasciati indietro senza un sussulto di DIGNITA’.
    ALTRO CHE SPEGNERE LA SPERANZA

    Molti hanno detto che per conoscere le fondamenta e i caratteri di una democrazia, occorre indagare anzitutto il sistema penitenziario come la misura più indicativa della civiltà di un popolo.
    Da detenuto ho avuto la fortuna di conoscere un grande uomo e un grande cardinale, che mi ha mostrato in pochi minuti come la sola ritorsione non solo è contraddetta dall’etica evangelica, ma non porta i risultati desiderati.
    Da qualche tempo sul carcere italiano è calato un silenzio refrattario all’impegno dell’ascolto, una indifferenza che genera un trascinamento lontano dal dolore e dalla sofferenza, come se dialogare sulla umanizzazione della pena fosse diventato un atto di lassismo politico e istituzionale.
    Eppure il carcere è luogo deputato alla elaborazione della pena, della colpa, dove l’uomo della pena nel tempo non sarà più l’uomo della condanna, ma quale uomo potrà diventare in una condizione di perenne disagio, costretto fino alle ginocchia nel proprio malessere, e in quello dell’altro.
    Un tempo il dentro e il fuori interagivano, riuscendo a edificare ponti di socializzazione, attraverso una capacità di coinvolgimento-partecipativo da parte del personale penitenziario, con impegno da parte di quel volontariato solidale perché costruttivo, basato sulla fatica dialogica e comportamentale, e con una interazione proficua e necessaria con la società tutta.
    Perfino a chi disconosce la funzione del carcere e l’utilità della pena, non può sfuggire il valore educativo del lavoro, che la stessa Costituzione pone a fondamento del nostro Stato Repubblicano: senza occasioni di lavoro, senza l’acquisizione di strumenti formativi professionali, il carcere come istituzione non può raggiungere gli obiettivi che gli sono richiesti, gli scopi per cui esiste nella sua utilità sociale.
    In questa inquietante insicurezza, che spinge a richiedere maggiori tutele e garanzie per le vittime e i cittadini onesti, forse è proprio questo il momento di ripensare non all’abolizione della Riforma Penitenziaria, non a rendere nuovamente invisibili uomini che hanno saputo ravvedersi e tornare ad essere parte viva del consorzio sociale. E’ necessario ripensare un carcere dove esistano veramente tempi e modi di ristrutturazione educativa, rifacendo per davvero i conti con la metà della popolazione detenuta non italiana, con un buon altro quarto di tossicodipendenti, mentre la rimanenza è quella criminalità che ben conosciamo.
    Riforme e innovazioni non sono istituti-totem da imbalsamare, ma vista prospettica per rispondere efficacemente alla richieste della collettività, che si duole di una recidiva che permane un mostro a due facce: una dimostra che la pena non aiuta a migliorare le persone, l’altra che il carcere non si riappropria della funzione di salvaguardia della comunità.
    Altro che ammazzare la speranza annullando la legge Gozzini, è urgente trasformare l’ozio e un tempo pericolosamente bloccato in occasioni di lavoro e abitudine alla fatica progettuale, affinché il rispetto per la dignità personale divenga qualcosa da guadagnarsi durante l’arco della condanna, proprio perché quella speranza di essere uomini migliori dipenderà dal lavoro che ognuno di noi sarà disponibile a fare con se stesso.
    UNICA VERA RISPOSTA LA FORMAZIONE

    E’ un susseguirsi di episodi tragici, con l’impronta della minore età a fare da balzello per un mondo adulto sempre più somigliante a un impiastro da rieducare.
    Adolescenti prese a botte e violentate, ragazzini rapinati e percossi, professori umiliati e qualche volta feriti, studenti-combattenti in marcia verso obiettivi da allagare, distruggere, in quella violenza che il più delle volte si ritorce contro senza preavviso.
    Ci muoviamo “disturbati” dentro una società ridotta a ballerina di terza e quarta fila, esperti e stregoni, tutti bene intruppati su poltrone comode, visibili, snocciolano dati, aggettivi e avverbi di rara bellezza, programmi che però a fatica vengono compresi e condivisi dagli adulti, le cui tensioni riforniscono di carburante le corazzate dei bulli in attesa.
    E’ in atto una strage della ragione, un vero e proprio annientamento della coscienza, attraverso la composizione sistematica di significati sempre più moderni e sempre meno attendibili, quando invece occorrerebbe semplicemente fare di più e bene.
    Di fronte a un tredicenne che bastona a morte un compagno, o improvvisamente perde contatto con i suoi domani, quando una giovanissima prende a ceffoni un insegnante, brucia i capelli a una prof, sono davvero importanti le frasi a effetto, di alto registro?
    E’ difficile dismettere i panni dei trasgressivi per assumere quelli di un ritrovato equilibrio, quando parti importanti di questa generazione fuma spinelli pesanti, sniffa cocaina a basso prezzo, ingurgita pasticche dai mille colori e ketamina senza essere cavalli di nessuna scommessa.
    E’ grottesca e vergognosa la prassi comportamentale corrente, qualcuno definisce questo spostamento delle assi di coordinamento sociale come il “percorso inevitabile verso il punto di non ritorno”.
    Forse è il risultato di tutte quelle deformazioni dell’anima che conducono fuori strada fin da piccoli e via via diventano forme inaccettabili delle esistenze, a minare le fondamenta di una intera società.
    Forse è nella formazione la vera risposta a quell’immersione di benessere che rafforza l’urlo “ voglio avere tutto e subito”.
    Formazione e non sbrigativa repressione che incide poco o nulla, formazione al di là delle interviste svolte all’uscita dei pub, delle discoteche.
    A questi potenziali lupi dagli occhi dolci, a questi mostri come vengono declinati sbrigativamente oggi, occorrerebbe far prendere visione di quanto dolore e quanta fatica c’è negli spazi di una comunità di servizio e terapeutica come la Casa del Giovane, attraversando senza scappatoie le storie anonime e blindate di tanti coetanei.
    Potrebbe essere importante varcare i cancelli di una prigione, sentire sbattere il portone blindato dietro le spalle, fare i conti con il rumore dei chiavistelli, degli scarponi chiodati, con il frastuono del silenzio e della solitudine di tanti uomini soli.
    Potrebbe davvero risultare importante.
    AUTOIPNOSI COLLETTIVA

    Le carceri si stanno nuovamente riempiendo, i detenuti stanno riconsolidando la percentuale di sovraffollamento precedente alla concessione dell’indulto.
    Manca la legalità, non c’è sufficiente sicurezza, occorre costruire nuove galere, c’è bisogno di interventi e denaro.
    Effettivamente occorrono i denari, perché senza quelli non esiste possibilità di disegnare alcun progetto attuale e futuro, senza denari la teoria non configura alcuna pratica.
    Possiamo redigere alti muri, edificare nuovi molok tra le nebbie, inasprire pene e sanzioni, moltiplicare per dieci i tutori dell’ordine, ma a quale scopo? Per vincere l’illegalità diffusa? Non è una cella oscura, una disciplina sciocca e feroce a far mettere in discussione il proprio vissuto a un detenuto, si otterrà l’esatto contrario, un’ammaestramento che prima o poi deflagrerà.
    Non è il carcere la soluzione a disfunzioni prettamente politiche, eppure ha ripreso a funzionare come una discarica abusiva, come una fabbrica di criminalità, in un paese dove le droghe la fanno in barba alle leggi, un paese che crede nella giustizia e nella legalità, finchè queste due coordinate sociali non vanno a confliggere con i nostri interessi, attraverso una personalissima interpretazione della conformità alle regole.
    Una verità conclamata sta nel sostenere che non è il carcere a poter risolvere le problematiche della giustizia e della sicurezza, anzi confidando sulla sola capacità di intimidazione e violenza prisonizzante, si accentuano le condizioni per mantenere la persona detenuta a un tempo bloccato, al giorno del reato.
    Così facendo non esiste più l’uomo e la sua colpa, né la necessità di elaborare una rivisitazione del proprio vissuto, in prossimità di un vero mutamento interiore, per cui prevale il passaggio percettivo non c’è alcuna spinta alla compassione.
    Nessuno o quasi si preoccupa di non fare fallire sul nascere qualsiasi progetto tendente al recupero della persona detenuta, superando la pratica della detenzione fine a se stessa, che mantiene colme le celle, senza favorire alcun auspicato cambiamento, in una esecuzione penale che riconosce come unico strumento di riordine il carcere.
    Le celle si riempiono di lunghi monologhi di follia lucida, in un confine inteso come spazio e soglia di non appartenenza, un “prevaricamente” altro, specificatamente un luogo ove detenere-contenere i risultati di un disagio sociale galoppante, che non è sintesi di volontà criminale, di contrapposizione ideologica, bensì di marginalità e esclusione.

    I RICORDI SONO UN PLOTONE DI ESECUZIONE

    In molti istituti penitenziari italiani, centinaia di uomini condannati alla pena dell’ergastolo hanno iniziato uno sciopero della fame, per sensibilizzare l’opinione pubblica e l’apparato politico, sulla possibilità di abolire quel “fine pena mai”.
    Indipendentemente dagli slogans usati, dai manifesti proposti che veicolano questa protesta pacifica, occorre distaccarsi dalle forzature ideologiche insite nei meccanismi perversi che il carcere ingenera, dalla violenza che abita la carta di identità del detenuto.
    Ergastolo, "fine pena mai": il dazio da pagare per il male fatto agli altri, una pena che affligge, punisce e separa dalla collettività.
    Una pena che sancisce la fine di un tempo che non passa mai, un tempo che non esiste.
    Che non ti assolve.
    In questa manifestazione non dovrebbe colpire l’uso improprio delle parole, prassi comune in una galera che imprigiona l’ottimismo, la ragione e l’obiettività, bensì constatare come “l’occhio non si articola più con la bocca”. Ciò vuol dire che il carcere è peggiore di come era prima della riforma, non sorprende quindi il pessimismo che accompagna il destino di tanti uomini: certamente ciascuno differente per vissuto personale e percorso esistenziale intrapreso.
    Ergastolo, sbarre appese alla memoria per ricordare: 30 anni di carcere scontato non sono un'astrazione, decenni di ferro sbattuto sui rimorsi che lasciano un segno, un'apnea che restringe i polmoni.
    Neppure le parole usate sembrano avere significato, nella bocca del detenuto diventano suoni, parole svuotate di tutto ciò che invece intendono portare con sè.
    " Fine pena mai", storie blindate e anonime, per cui giorno dopo giorno, il passato ricompone la sua trama, e passato, presente e futuro sono lì, ben allineati nel presente, in un attimo dove il domani non esiste.
    A volte una cella, uno spazio chiuso fa strani effetti, ti riduce, ti restringe, ti limita, ti spegne. Eppure a fronte di questa morte annunciata, c'é il sorprendente incontro con gli altri, c'é lo stupore di ritrovarsi al cospetto dell'universo interiore che é in noi, il quale ci conduce alla scelta di rinnovarsi, di cambiare, per tentare di essere un uomo libero nonostante le catene ai polsi
    Mentre questi uomini useranno il linguaggio del corpo sofferente, forse occorrerà ri-flettere, ritornare a pensare all’opportunità di un cambiamento radicale, dall’interno all’esterno della persona, dal cuore al viso, come ha detto qualcuno.
    Forse c’è davvero la necessità di ricominciare attraverso percorsi condivisibili a rientrare costitutivamente nell’essere umanità ritrovata, con nuovi impegni, nuove responsabilità, per mezzo di una pena che partendo dalla dignità della persona, dalle sue capacità e risorse, nel rispetto di una doverosa esigenza di giustizia della vittima, ricerca e scopre nuove occasioni di riscatto e riparazione.

    IN RICORDO DI MICHELE COIRO

    Ricordo il giorno della sua scomparsa, le parole scritte alla sua famiglia, gli attestati di stima, la gratitudine per quest’uomo mite e forte davvero.
    Il suo insediamento al Ministero non durò molto, ebbi però la fortuna di conoscere la sua grande umanità e giustezza, due valori non sempre perseguibili nell’amministrare il mondo carcerario italiano, non sempre raggiungibili all’interno di una cella.
    Michele Coiro ex Procuratore Generale del Tribunale di Roma, poi divenuto Direttore Generale del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, sebbene desse l’impressione di non essere del tutto “scafato”, dei gangli e dei meccanismi obliqui dell’apparato penitenziario, mostrava apertamente lo stupore per tanta conservazione ideologica, e allo stesso tempo affermava con la sua proverbiale risolutezza l’intendimento a voler riconsegnare al carcere strumento e funzione di salvaguardia della collettività, ma anche investire risorse per fare realmente promozione umana, emancipazione e cambiamento, affinché il carcere fosse interpretato diversamente dal solito contenitore di numeri, e l’uomo detenuto fosse posto nella condizione di attuare una seria revisione critica del proprio passato.
    Ho conosciuto personalmente il Prof. Michele Coiro durante una trasmissione televisiva a Roma: come sua abitudine affrontò le problematiche carcerarie con la formula del dubbio, dell’interrogativo, dell’uomo che avanza in un’area disseminata di nuovi stadi di disagio, con lo stupore di chi apprende e la sagacia di chi vuole intervenire incisivamente.
    Cercò di costruire cultura vera dell’affettività in carcere, convintamene pensava a una pena certa, ma flessibile perché veramente rieducativa, a madri e bambini non più dietro le sbarre, con un’attenzione sensibile che non voleva dire accudente, verso i più esposti e fragili, destinati al suicidio.
    Rammento ancora una frase di quest’uomo mentre dibattevamo sulla possibilità di vivere e convivere con la speranza anche dentro un carcere: Lei Andraous è un caso emblematico.
    Si riferiva alla mia lunga condanna e carcerazione, nonché alla sua consapevolezza che venti o trenta anni di carcere cambiano profondamente le persone, se accompagnate in un cammino di confronto e di relazioni importanti, le quali obbligatoriamente non consentono più di barare con se stessi, né con gli altri.
    In questo presente dove la questione sicurezza è brandita come una clava, ricordare uomini e riferimenti certi come Coiro, significa affermare che la sua sfida, iniziata e non portata a termine per cause indipendenti dalla sua volontà, appartiene a quanti credono nelle riforme, e nelle riforme sul carcere, è sfida a informare correttamente e onestamente l’opinione pubblica, è sfida a fare, perché del dire e del promettere è stanco perfino Gesù su quella croce.
    E’ sfida per chi, come il detenuto, ha molto da farsi perdonare, e assai di più da farsi finalmente avanti con nuovi gesti quotidiani, non solo per dire grazie agli uomini come Michele Coiro, ma per fare grazie sull’esempio di quest’uomo che è stato davvero giusto.
    LA RENDICONTAZIONE DEI PROPRI TAGLI

    Non sono un giudice, nè una vittima, ma non sono neppure un ipocrita: gli anni trascorsi in carcere, i nuovi gesti, gli atteggiamenti e i comportamenti di tutti i giorni, nel tentativo di svolgere prevenzione e contemporaneamente essere un uomo migliore, mi costringono a dire qualcosa sul detenuto che, condannato all’ergastolo, ha ingannato se stesso e quelli che hanno creduto in lui.
    Non conosco la sua storia personale, non esprimerò giudizi, vorrei però dedicargli una riflessione.
    Quando l’uomo del reato attraversa il confine che delimita lo spazio dell’uomo della pena, egli non può non fare i conti con una revisione critica del proprio passato-vissuto, non può non sostenere a sguardo in alto, il carico di un mutamento interiore, non può non scegliere l’unica via concessa dalla propria coscienza, una nuova condotta sociale.
    Questo è il percorso su cui poggia, per intero, quel patto di lealtà che la collettività ti ha concesso e affidato.
    Vorrei aggiungere che altri tre sono i passaggi che conducono a una consapevolezza che non piega di lato: la Solidarietà che hai ricevuto, non può essere quella “ridotta” ai soli buoni sentimenti, ai gesti buonisti, ma quella costruttiva, quella che scarta a priori le attenzioni prettamente accudenti, falsamente protettive, e invece privilegia l’attenzione sensibile, quella che attraverso sensibilità diverse approda a obiettivi comuni. In questo senso e solo in questo modo la solidarietà ricevuta spinge al cambiamento, all’emancipazione dai recinti di filo spinato che circondano un vissuto profondamente sbagliato.
    Se questa è la via maestra, allora è qui che si incontra un’altra compagna di viaggio, la Giustizia, quella che traccia un nuovo punto di partenza per ognuno, e ci fa muovere e schierarci dalla parte del bene e del finalmente giusto.
    In questo viaggio di ritorno lento e sottocarico, accompagnato da solidarietà e giustizia, nel tentativo di riparare al male fatto, trova prossimità il dovere di cittadinanza, per ritornare davvero a fare parte del consorzio civile, per appartenere a qualcosa, alla comunità, alla mia città, con le responsabilità che “insieme” cercano di assolvere ai bisogni dell’altro.
    Per ben camminare è necessario sapere rispettare se stessi e convintamene gli altri, con quel rispetto che non è ossequioso, deferente, riverente, assai in uso in certi agglomerati umani del disvalore, quel rispetto che non è possibile insegnare, ma si apprende attraverso l’esempio di quanti, sebbene da posizioni differenti, non si tirano indietro per unire ciò che si è rotto, attraverso quanti con il proprio impegno sottolineano l’equilibrio necessario per una consapevole rendicontazione dei propri tagli.
    Attraverso quanti innanzi a noi ci accompagnano a ritrovare e ricostruire noi stessi.

    IL QUESTORE GIUSTO

    Mi è capitato tra le mani “ Giovanni Palatucci il Questore giusto “, scritto da Padre Vanzan, Gesuita dallo sguardo trasparente, scrittore che non conosce le opacità di comodo, e in compagnia del Signore è sempre in cerca della verità.
    Bella l’introduzione del Ministro dell’Interno Giuliano Amato, colma di ferma speranza a uscire dall’oblio per ricomporre una tavola di valori condivisa.
    In questo volume colpisce lo spessore del personaggio, Giovanni Palatucci un poliziotto di quelli che non danno il fianco al ritratto in bella mostra, un uomo semplice nelle sue scelte difficili, ma chiare, un uomo e un poliziotto “ per servire meglio il prossimo “.
    In una contemporaneità che mette alla gogna i buoni sentimenti, che regala valore agli iracondi, che intercede con voce tonante ai miti e agli eroi che non sono, c’è a far da ponte, la storia di quest’uomo, che è bene conoscere a fondo, per comprenderne il martirio, rigettando l’ossequioso asservimento delle parole, per incontrare l’attenzione e la considerazione del suo ricordo.
    La vita di Giovanni Palatucci va letta con la praticità di chi osserva e ascolta, di chi annota e elabora con riguardoso rispetto, quella parte di noi mai in avanscoperta, mai in prima linea, mai giustamente corretta.
    Questa terza edizione ampliata da prefazioni e documenti inediti, meriterebbe miglior guida della mia, per rendere giustizia a un uomo e alla sua storia, soprattutto una migliore scoperchiatura del sommerso storico, quello che sempre più spesso rimane inculturalmente ottuso, mentre riguarda tutti, persino chi in quei momenti tragici si adoperò affinché l’umanità sprofondasse nel buio della propria sconfitta, preferendo non guardare, non intervenire, non partecipare, ben sapendo di commettere una ulteriore condanna alla condanna.
    Non fu così per il poliziotto Palatucci, che raccolse i resti dispersi e ammutoliti di tanti altri uomini, improvvisamente differenti, per volontà infame di dittatori bassi di statura e onore, ben nascosti dietro le quinte dell’inumana ragione.
    Questo volume è strumento di risveglio della memoria, possiede l’urto dell’avvertimento per ciò che è inaccettabile, per quanti insinuano offese alla storia, dimenticando i milioni di esseri viventi, perseguitati e annientati, sol perché ebrei divenuti merce di scambio dell’ideologia.
    Memoria storica che non deve mai essere trafugata dalle parole, memoria da leggere, ricordare e tramandare, nella scuola, nella famiglia, nella strada, perché memoria è l’umanità di uomini come Giovanni Palatucci, che hanno scelto di salvare quante più vite possibile da un’ingiustizia persino peggiore della Croce, in nome di una riconciliazione che è rinascita.
    Leggere questo libro significa addentrasi alla conoscenza del dolore, baratro della più degradante disumanità, in una follia lucidamente programmata, eppure seguire i passi di questo uomo, la sua incessante opera di salvataggio, ci rassicura e ci consegna il testimone per cui ognuno è chiamato a fare il bene di ciascuno.
    In quella tragica condizione che ha investito milioni di persone innocenti, senza alcuna possibilità di proteggere la propria vita, di difendere la propria dignità, rimane a fare da sentinella la solidarietà della gratuità, soprattutto quando la scelta di essere “giusti” costa il prezzo di un biglietto di sola andata.

    “LA VERGOGNA DEL SANGUE”

    E’ incredibile come il passato ricomponga la sua trama sulle macerie del presente, rivestito di disattenzioni e disamore per la verità.
    La televisione ed i quotidiani ci mostrano cortei a favore della liberazione della Lioce, dei brigatisti in carcere, di quanti sono sottoposti al 41 bis, al carcere duro.
    La città dell’Aquila è attraversata dai vecchi e usuranti slogan, Bologna è rapinata della propria dignità, nelle scritte sul muro dell’abitazione del Prof. Biagi, ulteriore umiliazione a un morto che non può più difendersi.
    Ma di quali simpatie pseudo brigatiste si tratta; quelle di oggi, quelle che imperversavano nelle piazze ieri?
    Di quali uomini in armi e incappucciati in piazza dobbiamo avere timore, se questo velleitarismo è ormai sconosciuto persino ai più vecchi e incalliti degli utopisti o rivoluzionari che dir si voglia.
    In queste camminate autocelebranti per la città, in queste scritte ordinatamente scomposte, qualcuno può pensare che ci sia una reinterpretazione a misura del nostro tempo?
    Mentre osservavo i volti dei contestatari, la mia esperienza spingeva la mente a misurare l’ingiustizia della spersonalizzazione, della eccessiva durezza dell’isolamento in un carcere, misure di contenimento legittime, ma che sospingono le persone a suicidarsi nella più colpevole indifferenza.
    Una riflessione, un dissenso, non possono però essere ghermiti come clava, per favorire speculazioni ideologiche elaborate in troppi sepolcri imbiancati.
    Gli anni di piombo sono trascorsi, trapassati, non esiste il pericolo di contaminazione popolare, perché un’intera generazione è stata annientata, e quei ragazzi in corteo, gli altri che hanno imbrattato la memoria di un morto, non possono pensare di plagiare le coscienze attraverso vecchie e nuove istanze di terrore e sofferenza.
    Un grande scrittore contemporaneo ha decodificato questa irresponsabilità come “ la vergogna del sangue”. Dal canto mio, mi permetto di affermare che la memoria è nostra compagna di viaggio, mentre ci accorgiamo che non c’è una sola classe di studenti, una catena di montaggio di operai, un nucleo famigliare, un solo Dio eretto a delirio di potenza, ad affiancare questa disturbante rappresentazione.
    Lo sparuto gruppo all’Aquila, gli altri con lo spray a Bologna, quanti con l’arroganza della violenza fuggono dalla vita propria e peggio, altrui, rischiano di rimanere al palo ad aspettare un tram che difficilmente si fermerà a raccogliere i ritardatari, quanti, nel frattempo saranno diventati replicanti di se stessi, ma che nessuno vorrà rivedere.

    QUEGLI INCONTRI IMPORTANTI

    Il carcere continua a essere il maggior riproduttore di subcultura, e sebbene l’esigenza che sale alta sia di trasformarsi in un luogo di speranza, si mantengono inalterate le sue condizioni di luogo di morte.
    Il carcere non è certamente quello dei film, dei romanzi, è tutt’altro da una condizione di colpa-pena-punizione.
    Chi sbaglia deve pagare, chi è delinquente non può cambiare, chi ha rubato la dignità all’altro, rimanga ai margini della collettività, questa la stigmatizzazione che accompagna la persona detenuta, questo l’epitaffio per ogni auspicata riconciliazione.
    Permanendo questo rigetto sociale, appare difficile pensare a un carcere che migliori gli uomini che ne varcano la soglia, ancor meno pensare alla possibilità al suo interno, durante l’espiazione della pena, di fare incontri importanti, quando mancano le occasioni per prendere in mano la propria vita, affidandola alla capacità di ognuno di costruire relazioni significative, capaci di mettere fuori gioco bari e carte truccate.
    Occorre ricordare, per chi invece è stato più fortunato, le persone che ci vengono incontro prive di atteggiamenti pietistici dei soli buoni sentimenti, che non fanno del bene ad alcuno.
    Quelle persone grandi non per i centimetri, ma per l’autorevolezza acquisita in prima linea, tutta dentro una stretta di mano donata senza indugio.
    Forse serve rammentare lo stupore per il bene ricevuto, la passione nella spinta a mettersi in gioco, nel tentativo di alimentare e mantenere una speranza.
    Non bisogna dimenticare il valore dei confronti, e le motivazioni che scaturiscono e crescono, sino a diventare quel senso profondo da dare alla vita che a ognuno rimane da percorrere con dignità, al di là della condanna e delle sbarre appese alla coscienza.
    Non possono esserci indugi a guardare al passato per comprendere il presente, non può esserci alcun dubbio a ripensare con gratitudine alle grandi persone incontrate in carcere, che hanno insegnato a prenderci in braccio e stringere i denti, fino a essere protagonisti positivi della comunità in cui viviamo, fornendo il nostro contributo per edificare strade di giustizia per l’intera società.
    Allora cambiare mentalità è possibile, come diventare uomini nuovi, anche in una cella, abbandonando i comportamenti disattenti, peggio, quelli indifferenti, affinché questo pianeta emarginato, possa distaccarsi dalle giustificazioni e dal pregiudizio che coglie impreparati, a tal punto da confondere le vittime dai colpevoli, o come qualcuno ha detto “ nella costrizione di sentirsi innocenti di essere colpevoli”.
    E’ davvero indispensabile che questa prigione risulti strumento, sì, di castigo, ma anche propositore di incontri importanti, i quali possono insegnare al detenuto, alla persona in difficoltà, a saper rispondere e scegliere con responsabilità, in quanto scelta e responsabilità formano la più alta delle libertà.
    L’UMANITA’ DELLA SPERANZA

    Indulto, finanziaria, riforme, sono scosse telluriche che provocano cedimenti istituzionali, come sulla Giustizia minorile e la disinformazione dilagante che erroneamente addita il minore imputabile un giorno dopo il compimento del quattordicesimo anno di età.
    Eppure nella comunità Casa del Giovane di don Franco Tassone dove da anni svolgo attività di tutor vengono accolti giovanissimi di dodici-tredici anni, a seguito di interventi mirati da parte dei Servizi Sociali per minori, i quali si pongono a mezzo e tutela del minore, quando è provata la disgregazione del nucleo familiare, quando persiste l’evasione scolastica, nonché il rischio ricorrente di comportamenti che sono di per sé gia reati contestabili.
    Forse occorre pensare a quel dodicenne che commette un reato, a quanto poco conosciamo di questo ragazzo, e quanto quella sua irresponsabilità sia somma e detrazione di una responsabilità che appartiene ad un pubblico ben più adulto.
    Quale carcere e quale pena sono giuste per un adolescente che non sa riconoscere ancora sentimenti complessi e ruoli ben definiti?
    Questa domanda non autorizza nessuno a sentirsi escluso dal fare i conti con una risposta che obbligatoriamente coinvolge ognuno.
    Davanti ad accadimenti tragici, che scompongono le coscienze, è chiaro che sale alta una esigenza doverosa di Giustizia nei riguardi delle vittime, ma non bisogna dimenticare che al di là delle innovazioni, del tavolo di mediazione, di una procedura penale che custodisca umanità e speranza, c’è il minore e la sua fatica ad accettare le regole.
    Se è più facile lasciarsi andare all’emotività e chiedere un inasprimento delle pene, nel comodo rifugio: “ tanto non accadrà mai ai miei figli”, occorre pensare
    ai tanti giovani nelle comunità, che cadono e si rialzano, e di fronte alle delusioni, ai fallimenti, al disagio esistenziale di un minore, alle eredità conflittuali lasciate sulle loro spalle, persino davanti al disagio psichico, è forse meglio perdere una battaglia, per vincere la guerra, per non assuefarsi alle facili conclusioni che alimentano paure e insicurezze, e soprattutto interrompono quel collante che tiene insieme una società.
    Una società che sa recuperare, che produce “ il bene “ nel nome della centralità dell’uomo, è una società che riconosce il valore della libertà, e libertà sottende capacità di sostenere una scelta.
    Anche la più difficile.
    MACERIE CHE CI LASCIAMO ALLE SPALLE

    Giovani e adulti, facoltosi e meno abbienti, ognuno a “farsi grande” con l’uso di sostanze stupefacenti.
    In questo consumo smodato di illusioni in pillole, non esistono confini sufficienti a identificare le ideologie nè le culture.
    Eppure non fa difetto l’eredità pesante che ci portiamo addosso, quell’esperienza dolorosa a indicatore di quei giovani che soccombono nella dose quotidiana.
    Continuiamo ad azzuffarci per decidere se sia meglio punire o prevenire, o ancora meglio assolvere chi sniffa, chi si buca, chi fuma.
    Mentre inarchiamo le sopracciglia per l’ennesimo giovane perduto, noi replichiamo la sconfitta nella prossima legge emanata a furor di popolo, la quale ammalia il voto ghermito a quattro mani, ma non porta il risultato voluto.
    Viviamo questa vita come fossimo “turisti per caso “, camminiamo tra le incertezze che ci colgono, senza preoccuparci delle macerie che ci lasciamo alle spalle.
    Nelle scuole i cani poliziotto delineano scenari incredibili, dove gli adolescenti di ieri appaiono improvvisamente travestiti di tanti domani…. nel fumo di una canna.
    Nelle discoteche tribù di giovani si muovono nervosamente, imbottiti di energia in polvere, per guarire da fragilità e solitudini.
    Nelle fabbriche, nei laboratori, negli uffici, uomini e donne, ben intruppati nella trasgressione, non più visibile come tale, divenuta piuttosto una dimensione, una sintesi sgangherata, per tentare di arginare le proprie rese all’efficienza.
    Così nelle strade, nei tanti sguardi stanchi, avamposti alla berlina, per calcolo o per inadeguatezza politica, postazioni mobili del dolore, per nascondere la nuova e logora assunzione di droghe, per una tantum, per tappe intermittenti, solo per qualche volta, per qualche momento…….
    Chissà forse il volo pindarico causato dalla droga sta davvero a divertimento, a svago, a tendenza che attrae, nulla di più e nulla di meno di un tentennamento della ragione.
    Forse è proprio così…………….perché il nostro è proprio il paese di Pirandello: sappiamo urlare, disperarci, condannare, scrivere a caratteri cubitali che non esiste una droga buona, che ogni droga fa male.
    Ma poi quando cala il sipario sulle grandi adunate, sulle tracce lasciate indietro dai nobili ideali, ecco che dal Golgota laico, coloro che vergano le leggi per tutelare l’inalienabile diritto alla vita ( che non può essere interpretato come diritto alla sopravvivenza ), improvvisamente, sconfessando se stessi, indossano il passamontagna per rapinare anonimamente la possibilità di una scelta, soprattutto nei riguardi di chi ancora questa possibilità non possiede, trasformando quello che dovrebbe essere il compito più alto, in un dialogo a senso unico.

    “SI EDUCA E SI RIEDUCA SOLO CON AMORE E FIDUCIA”

    Comunità “ Casa del Giovane “ di don Franco Tassone a Pavia.
    In questi spazi ci sono ragazzi che cadono e si rialzano, inciampano e il più delle volte imparano a ben camminare, se accompagnati senza la presunzione di fare scomparire rinculi e future incertezze.
    Si sta con loro mentre una punta di nostalgia fa capolino ad ogni affermazione delle persone adulte, espressione di un dispiacere per un tempo andato, che pare assai migliore dell’attuale…….Mentre semplicemente siamo noi ad essere cambiati, non siamo più quelli di prima, e non il tempo che rimane lì, in tutta la sua comoda convenzione.
    Assomigliamo a delle fotografie impolverate, una rappresentazione di ciò che cambia e si trasforma, di quanto non è più, abbiamo difficoltà a percepire l’importanza di una cultura nuova, che privilegia coloro che hanno bisogno di maggiori e autorevoli risposte, e cioè proprio i ragazzi più giovani.
    “Casa del Giovane” e Don Enzo Boschetti, suo fondatore: “ si educa e si rieduca solo con l’amore e la fiducia”.
    In queste parole non c’è solamente il fondamento di questa comunità, ma il filo conduttore che ammoderna e ammonisce, tra questi ragazzi che dietro la maschera dell’invincibilità nascondono il macigno dell’insicurezza-fragilità-solitudine, con la conseguenza di farsi apporre sul passaporto il timbro di prigionieri di una libertà che non c’è più, anzi non c’è mai stata.
    Gianluca, Michele, Fabio…… mentre di là, nel mare di parole c’è il tentativo di minimizzare sullo scarso dialogo in famiglia, sulla difficoltà a comunicare veramente, sul malessere nella scuola, sul disagio occupazionale.
    C’è indifferenza sul vuoto dei valori e di spiritualità che li accompagna.
    Non riusciamo più a dividere compiti e responsabilità, eppure qualcuno inascoltato ripete: “qui non si tratta di bene o male da stabilire al supermercato dei valori”.
    Andare a parare ossessivamente sulle miserie che non ci appartengono, sulle mancanze che sono sempre dell’altro, è un atteggiamento che non sminuisce la nostra responsabilità, e soprattutto non è uno stile di vita che ci consente di custodire alcuna garanzia per “nostro figlio”.
    Occorre credere che ogni persona è un mistero vissuto, e non lo si può conoscere sul terreno pratico, ma lo si incontra nel campo affettivo, in una ricerca-crescita personale, che consente il recupero di occasioni perdute, per riconsegnare a ciascuno la propria DIGNITA’.
    Perché ciò possa accadere sono necessarie quelle figure mancanti di questa società, quei riferimenti se non scomparsi, atomizzati, che ora più che mai abbisognano di un ritorno, per diventare insegnanti migliori, di quelli, cioè, che continuano a insegnare giorno dopo giorno senza sapere come insegnare…ma avendo ben presente, più per capacità d’amore che per titoli conseguiti, cosa insegnare.
    EDUCARE SIGNIFICA NON TIRARSI INDIETRO

    Quel giorno la professoressa di Italiano tentava di spiegarci che il destino non è una mera fatalità, bensì siamo noi a tracciarne il senso.
    Aveva ragione da vendere, ma io non volli acquistarne neppure un grammo, tant’è che le lanciai una matita, colpendola alle spalle.
    “Chi è stato?”. Il silenzio fu l’ unica risposta.
    Venne il Preside, minacciò la sospensione per tutti, se non fosse saltato fuori il colpevole, ma il mutismo non consentì dialogo, mentre io mi sentivo fiero della mia bravata, e protetto dal silenzio dei compagni.
    Oggi so che fu un errore, scambiare quel silenzio per una forma di solidarietà, oggi che nella Comunità “Casa del Giovane”, mi è capitato di assistere a qualcosa di simile: una storia ripetuta, senza che alcuno riesca a coglierne l’insegnamento.
    Un minore ne ha combinata una delle sue, e i coetanei continuano ad ammiccare, tacere, e, peggio, acconsentire, ma scoperto e punito giustamente il colpevole, gli amichetti “solidali” si rigano il volto di lacrime.
    E’ sottile, quasi invisibile, il confine che separa il sentimento della solidarietà dall’omertà, ma quest’ultima non ha parentela con ciò che nasce spontaneo verso l’altro, perché la solidarietà è un sentimento che nasce con forza, con amore, con verità, per poi ritirarsi senza clamori. Invece l’omertà è un mezzo per rendere sicura la prepotenza e la prevaricazione.
    L’omertà è viltà, per coprire l’ignoranza, è una subcultura che consente di far pagare ad altri il prezzo della propria inadeguatezza.
    Ecco che allora diventa prioritario, urgente, intervenire e comprendere che è certamente una sola la via da seguire, cioè quella del sentire il richiamo della solidarietà vera, quel sentimento che ci induce a farci avanti, a non nasconderci, per poter essere responsabili del bene di ciascuno, ammettendo gli errori e cercando di comprenderne il peso.
    Non so se oggi, come ieri, questi fraintendimenti dolorosi che assalgono i giovani sono il risultato di una ingiustizia sociale, che moltiplica i casi di emarginazione, di protesta e di disagio.
    Però sono certo che non saranno sufficienti solo le parole, solo i libri, a salvare chicchessia dal proprio destino.
    Ho imparato che educare significa non tirarsi indietro, ma avanzare con il bagaglio delle proprie esperienze, come somma degli errori, per porsi a diga di ogni facile conclusione: perché solo in questa direzione può esistere una politica sociale che possa partorire giustizia, ricordando che il diritto alla vita e alla tutela di ogni minore passa attraverso un’azione collettiva, dove nessuno può chiamarsi fuori.
    Un’azione che è anche fatica, ma va affrontata giorno dopo giorno.
    DAL MITO DELLA TRASGRESSIONE

    A 14 anni non si pensa al carcere, ti ci trovi "dentro" improvvisamente e ne sei respirato e concluso. Sì, ti ci trovi dentro ed é davvero troppo tardi. L'età più bella improvvisamente devastata nell'incontro affascinante e frontale con il mito della trasgressione.
    Io me lo ricordo bene, ero impegnatissimo a fare vedere alle autorità di essere un duro, e quando mi stavano portando nel "mio" primo carcere dei minorenni ho pensato " ecco sto per iniziare finalmente''.
    E' tutto accaduto in una vita precedente? No, é stato ieri.
    Quando vago con la mente tra questi fotogrammi impolverati e ingialliti dal tempo, rivedo la mia immagine scomposta e inquieta, mentre i pensieri mi cadono addosso e raccoglierne i cocci è un'ardua impresa.
    Gli anni sono trascorsi, uno dopo l'altro, passo dopo passo, uno scarpone chiodato dopo l'altro, fino a giungere a 'quell'urlo" che ha squarciato la notte.
    Qull'urlo che ho tenuto compresso in me, sorvegliato a vista dalla mia incredulità, contenuto nei miei tormenti, divenuto un dono prezioso da custodire.
    Svegliarmi nel buio, nel mezzo di una tempesta silenziosa, e due occhi bellissimi scrutarmi, scuotermi. Due occhi lucidi e profondi come l'anima che traspare al di là della coscienza, della ragione che indaga e accusa. Con le mani fredde ed il cuore in gola, il respiro che non esce, il dolore nei polmoni salire alla gola e fare fatica a respirare.
    Affannosa ricerca di boccate d'aria mute, imprigionate, incatenate in attimi intensi di vuoto e di pieno, di vita sospesa.
    Due occhi come lune inchiodate, un volto che non conosco, ma che sento tutt’intorno.
    Due occhi che piangono, rimangono aperti e si distendono verso di me.
    Nel silenzio di pietra della cella, I'urlo fuoriesce e taglia di netto il sentiero praticato a occhi bendati, sgretola le abitudini consolidate, i sussurri che impongono i piedistalli e le parole a paravento che non stanno scritte da nessuna parte.
    L'urlo esce, assorda, mi discosta e cancella la mia cella, le altre celle, i muri e gli steccati.
    L'urlo si espande, rimbalza, si piega, prosegue e non smette la sua corsa, neppure quando sono caduto in ginocchio, spossato, svuotato di me stesso.
    Quegli occhi sono sempre lì, velati di pianto, addolciti da un sorriso leggero, come a voler ridurre la distanza siderale che mi separa da questo reale intorno.
    Occhi grandi, lucenti, lacrime che parlano di una tristezza felice, di una gioia che non conosco e invece vorrei avvicinare, occhi che rimangono a osservare la mia sorpresa, la mia fragilità.
    Occhi bellissimi vestiti di speranza, sguardi che consentono di ricostruire e ritrovare l'uomo, sebbene nella fallibilità umana.
    Quella notte sono rimasto in ginocchio tanto tempo, in una sorta di terra di nessuno, sbattendo il viso contro una specie di cortina fatta di barriere materiali e psicologiche, costretto fors’anche dalla mia ostinazione a vivere del mio, in una tragedia che non ha fine, con un passato che assomiglia ad una sera senza luce dove non si può leggere, solo ricordare.
    L'urlo ora s'é disperso, quegli occhi tanto amati sono svaniti.
    I giorni, e gli anni si inseguono testardi, mi adagio sul futuro che per me é già oggi, in un presente contenuto nel passato, poiché ogni volta che si progetta qualcosa si modifica e si rilegge il proprio passato con occhi e sguardi nuovi.
    PENSARE A EVA ED AL SUO INSEGNAMENTO

    Eva è una bambina dai grandi occhi sparati addosso al mondo, è una fotografia che non s’impolvera, un tempo che non finisce mai di stupire.
    Eva è la risposta alle domande insolute, ai quesiti addormentati e messi da parte per non affrontare gli incroci, gli ostacoli che l’esistenza propone nelle scelte che arrivano, che avvertono delle precedenze, degli arresti, delle responsabilità da rispettare.
    Eva è lì che ascolta il racconto di una storia vera, che serva a dedicare un pensiero di speranza a chi è all’inizio della strada, e per cominciare bene, bisogna non sentirsi mai soli.
    C’è sempre un momento in cui anche il più ottuso degli uomini è costretto a lasciare sguarnito il proprio quadrato delle rigidità ostinate, scegliendo di essere interprete di una nuova attenzione, di abitare finalmente la responsabilità del proprio vissuto.
    E’ possibile farlo nel silenzio costretto di una cella, nell’ascolto di una preghiera, nella fatica di una relazione importante, condividendo il cambiamento che aiuta a spostare i piedi e il cuore dall’angolo in cui spesso restiamo disabitati.
    Come raccontare a una ragazzina e a qualche bullo inebetito dal proprio ruolo, che forse per cambiare la storia dovremmo condividere una responsabilità, quella di ammettere che gli artefici dei nostri guai, delle nostre sfortune, non sono gli altri, ma che “ l’unico vero problema sono io“.
    Il passato non si cancella, non scompare, ma è possibile distanziarlo, e renderlo materia di riflessione, di interrogativi, persino quando la domanda incupisce, inquieta.
    Ecco, proprio in questo frangente è necessario sottolineare l’importanza di non perdere contatto con noi stessi, e sapere sempre dove sono le persone che amiamo e che stimiamo, quelle che possono aiutarci a non fare scelte sbagliate, offrendo le proprie capacità per scardinare il piedistallo su cui poggiano il mito della forza, della prevaricazione, della violenza.
    Quel giorno, una bambina mi è corsa vicino, mi ha toccato la mano, e facendomi scivolare dentro qualcosa, è fuggita via.
    “Vince, io non so se gli uomini ti hanno perdonato, ma Gesù lo ha fatto ne sono sicura, e voglio dirti che anch’io ti ho perdonato”.
    Per tanto tempo ho inseguito quelle righe minute, scritte con ordine e con garbo, per tanti anni mi hanno accompagnato nel lungo e lento viaggio di ritorno, quante volte mi sono chiesto se Eva in quell’attimo fuggente era stata sola con la sua penna, e se avrà ripensato alla facilità con cui si può perdere ogni cosa, la propria famiglia, la propria libertà, anche la propria dignità.
    Quando penso a Eva, al suo insegnamento forte, mi viene in mente cosa ha detto un’altra grande donna, ferita nel profondo da un dolore indicibile: “ La Giustizia ha sempre da riparare, affinché non scompaia la disponibilità umana del perdono, ma perché ciò possa avvenire occorre riconoscere con consapevolezza i propri errori.
    Gesù parlò al ladrone, è vero, ma con quello che ebbe il coraggio della dignità ritrovata, per chiederGli di poter abitare nel Suo regno”.

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